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“Le startup sono le nostre future multinazionali”. È con questo slogan che è stata presentata presso la sede del Ministero dello Sviluppo Economico la seconda edizione della Rome Startup Week. La rassegna, organizzata da Roma Startup in collaborazione con la Regione Lazio, il Comune di Roma e numerosi operatori dell’ecosistema startup, nasce per valorizzare le grandi risorse già presenti sul territorio italiano e romano in particolare.
StartupItalia! sarà media partner dell’evento.
«La nostra città è un hub culturale e scientifico di primaria importanza, con i suoi 23 incubatori e acceleratori per startup – ha dichiarato Adriano Meloni, Assessore allo Sviluppo Economico, Turismo e Lavoro di Roma Capitale – fra atenei pubblici e privati poi, ospita 22 università, che devono essere protagoniste della cultura digitale». Ma il motto è: “fare rete”. Istituzioni, mondo accademico e partner privati devono lavorare in sinergia per poter proporre un modello di business vincente.
Ecco perché, dal 6 al 14 aprile, sono previsti una serie di incontri, discussioni e panel di confronto internazionali su investimenti e modelli di politiche di innovazione. E ancora, competizioni tra startup, focus group e workshops su temi come Cybersecurity, Intelligenza Artificiale, Blockchain e mobilità sostenibile.
Durante la settimana poi verrà presentato anche lo Startup Act, un manifesto di linee di azione e proposte legislative redatto dalla comunità dell’innovazione italiana “per coinvolgere i nuovi legislatori appena eletti e rappresentare quei passi legislativi ed istituzionali che potrebbero dare slancio all’industria dell’innovazione”.
A margine della presentazione, abbiamo incontrato Gianmarco Carnovale, Presidente di Roma Startup, per analizzare con lui lo stato di salute dell’ecosistema startup italiano. Partendo proprio dalla Roma Startup Week.
«Roma è la città ideale dove fare questo festival – ci spiega – perché la nostra città ha ancora un potenziale inespresso incredibile».
Quali sono gli obiettivi di questa seconda edizione?
La prima edizione è stata un numero zero: volevamo testare le nostre capacità, ma in una dimensione contenuta. Ora però si fa sul serio. In questi anni c’è stato un approccio troppo superficiale che ha portato alla nascita di un sistema caotico, dove un po’ tutti hanno agito a modo loro. Il nostro obiettivo è ambizioso: vogliamo ricostruire il rapporto tra paese e startup.
Quali sono stati, a tuo parere, gli errori più grandi?
In questi anni sono stati fatti una serie di errori per non aver studiato realmente il Venture Business. Le norme, alcune anche corrette, sono state però molto parziali rispetto a quanto andrebbe regolato. Si è pensato solo alle startup ma non a tutto l’ecosistema: talenti, operatori intermedi e capitali di rischio. Mentre la dimostrazione che ci da tutto il mondo è che, laddove il modello del venture business viene davvero applicato correttamente – dal sistema formativo agli operatori intermedi (acceleratori, incubatori, mentor e advisor), passando per privati e business angel – si può ottenere un risultato di qualità.
In questo contesto, come si inserisce la Roma Startup Week?
Portando tanti ospiti stranieri d’eccellenza a Roma vogliamo raccontare, attraverso i loro esempi virtuosi, che cos’è il Venture Business, quali sono le sue potenzialità e perché non si tratta di un tema collaterale, ma piuttosto un aspetto centrale se vogliamo che questo paese rimanga una grande economia occidentale. Tramite i diversi appuntamenti intendiamo creare un grande momento di condivisione e apprendimento tra gli operatori dell’ecosistema nazionale e internazionale e il sistema politico, educativo, industriale e finanziario del paese.
In quanto tempo il nostro paese riuscirà a recuperare questo ritardo?
Con uno schema corretto e con delle linee guida importanti rispetto al settore, io penso che in un arco di tempo di 5 anni il nostro paese potrà fare un balzo dagli attuali 100-150 milioni di investimenti a una cifra tra i 3 e i 5 miliardi l’anno. Pensiamo così di poter superare ampiamente le 30mila persone occupate in 8mila startup “fasulle”, per raggiungere invece un output di 3/500 startup vere all’anno e arrivare così in 5 anni a 100/150mila posti di lavoro di qualità per giovani e meno giovani.
Come dicevi, il mercato finora si è praticamente autogestito, generando (a quanto pare) 8mila startup “fasulle”. Mi spieghi meglio questo concetto?
Ognuno finora ha fatto un po’ a modo proprio e quelle del registro delle startup sono 8mila imprese qualsiasi, non propriamente delle startup. Purtroppo il registro aveva dei requisiti abbastanza blandi e, tra l’altro, aggirabili: oggi per definirsi startup innovativa basta dichiarare di detenere un pezzo di codice software di qualunque genere e autodichiarare di spendere almeno il 15% all’anno in Ricerca e Sviluppo. So di commercialisti che lo propongono abitualmente ad ogni nuova impresa per avere delle facilitazioni. In pratica, è diventata l’ennesima furberia all’italiana.
Quante sarebbero dunque le startup “fasulle”?
Se andiamo ad analizzare quel registro sono circa 660 quelle che hanno raccolto investimenti, quindi può essere quella un’espressione della proporzione reale. Un 7-8% sono le startup propriamente dette che soffrono perché al momento il circuito non è organizzato per produrre tanti progetti d’impresa ad alto potenziale. Non c’è il capitale di rischio, ma soprattutto non ci sono gli operatori intermedi. É necessario dunque, spiegare al paese quanto le startup possano essere davvero rilevanti per il futuro della nostra economia e come vadano supportate dai diversi attori.
Cosa manca invece a Roma per diventare un hub importante, al pari di altre capitali europee come Parigi o Lisbona?
Niente. Roma è una culla di talenti, è il maggior polo universitario europeo e uno dei maggiori centri di ricerca europei. Oggi dunque, dal punto di vista di quelli che sono gli asset per uno startup hub, Roma ha tutto quello che si potrebbe desiderare e molto più di quello che hanno già dei grandi hub internazionali. Parlo di talenti, ricerca, capitale (il 50% delle famiglie ricche di questo paese sono residenti a Roma). E poi c’è “fame”, c’è una grande voglia di riscatto. E per fare impresa serve il coltello tra i denti.
Una delle polemiche mosse all’ecosistema startup italiano però è che sia un ecosistema molto chiuso.
Ti posso assicurare che questo non vale per Roma, che è assolutamente collegata e relazionata con gli altri hub. Abbiamo dovuto superare però, lo storytelling del paese che ha raccontato al paese stesso e anche all’estero che fosse Milano il vero hub. In realtà, Milano è un sicuramente un eccellente hub della finanza, dell’economia e dell’industria, non lo è però dal punto di vista delle startup. Da un anno e mezzo a questa parte cominciamo finalmente a ricevere visite di investitori internazionali che scoprono una realtà, a loro finora assolutamente nascosta. La domanda ricorrente è: “Ma dove eravate nascosti? Perché il paese non parla di voi?”.
Ecco. Perché?
Perché c’è questa ubriacatura collettiva nel concentrare tutto su Milano. L’ecosistema invece è a Roma: qui ci sono decine di università impegnate nello stimolare l’imprenditorialità, scuole d’impresa – ne sono nate sei solo negli ultimi tre anni – incubatori e acceleratori che parlano la stessa lingua. Insomma, c’è già una rete: cinque anni fa eravamo in otto, ora siamo una sessantina di operatori: nel resto del paese non c’è una concentrazione simile.
Quindi possiamo dire che questo Roma Startup Week è anche un modo per dire: “Roma c’è”?
Certo. Vogliamo dire al paese, anche attraverso la testimonianza degli operatori internazionali, che qui le cose si stanno facendo correttamente mentre nel resto del paese ci siamo reinventati le startup all’italiana, che non hanno niente a che vedere con il resto del mondo. Io sono convinto che l’Italia dovrebbe puntare su questa città come hub. Roma c’è ed è già pronta!