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La tecnologia sta trasformando il mercato del lavoro e per farsi trovare pronti la ricetta è una sola: anticipare gli effetti collaterali della digitalizzazione. “Prevenire, meglio che curare”, sintetizza Alain Dehaze, ceo del gruppo Adecco. Il segreto è far dialogare scuole e imprese, avvicinare i ragazzi alle materie scientifiche e sfruttare il fascino delle start up per spingere sempre più persone verso le facoltà ad alta intensità tecnologica. Dehaze è a Milano per l’Experience Work Day, uno dei progetti, insieme a Ceo1Month, che il gruppo porta avanti proprio per ridurre la distanza che separa i giovani dal lavoro: “Sono programmi che servono a loro per crescere, ma sono importanti anche per noi perché possiamo confrontarci con i ragazzi e guardare quello che facciamo da una nuova prospettiva”, spiega.
Informatizzazione, industria 4.0 e digitalizzazione invasiva: la tecnologia ha stravolto il mercato del lavoro, è ancora un’opportunità o è diventata una minaccia?
“Noi crediamo che sia ancora una buona opportunità. Le faccio un esempio: abbiamo co-creato insieme a Microsoft una piattaforma online dedicata ai freelance, si chiama Yoss. L’obiettivo è far incontrare online domanda e offerta di lavoro, assicurando il miglior match tra le necessità dell’azienda e le professionalità sul mercato e andando incontro alle esigenze dei freelance. Per esempio, rispondiamo a un problema sostanziale dei professionisti indipendenti, garantendo il pagamento entro 72 ore dal completamento del servizio.
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L’abbiamo lanciata in Francia, ora stiamo preparando il suo sbarco negli Stati Uniti e via via ci espanderemo a livello internazionale. E se l’abbiamo fatto è grazie alla tecnologia: non eravamo in questo mercato e se non ci fosse stata una piattaforma adatta, non saremmo mai entrati”.
È un simbolo dei tempi che cambiano.
“Il mercato dei freelance è molto ampio, vale mille miliardi di dollari e presto arriverà a 1.300 miliardi. Già oggi è tre volte più grande del temporary staffing market. Nel mondo, i liberi professionisti sono sempre di più: solo in Italia ce ne sono attualmente 4 milioni, 2 milioni sono nel Regno Unito, un milione in Francia. Negli Stati Uniti nel 2025 saranno il 50% dei lavoratori, in questo momento sono già il 35%”.
Ma non c’è il rischio che la tecnologia possa far calare l’offerta di lavoro, con computer sempre più abili pronti a prendere il posto delle persone?
“La tecnologia senza dubbio sta cambiando il modo di lavorare per molte professioni e bisogna essere capaci di aggiornarsi. Alcuni lavori potrebbero anche sparire, ma quello che dobbiamo imparare a fare è costruire sul cambiamento per superare le sue derive negative. Per vecchi lavori destinati a sparire ce ne sono altrettanti nuovi in arrivo. La vera sfida è la sincronizzazione tra la perdita dei posti di lavoro e la creazione di nuove opportunità.
Per questo è necessario lavorare per introdurre incentivi per favorire il reskilling dei lavoratori più maturi, promuovere lo sviluppo delle competenze digitali, sostenere la formazione per gli over 50 che avviano un percorso di riqualificazione finalizzato a nuove professioni o verso l’autoimprenditorialità: vogliamo aiutare aziende e governi ad anticipare gli eventi e non aspettare la loro esplosione. È questa la chiave: prevenire, non curare”.
Uno dei fenomeni paradossali di quest’epoca è il digital mismatch, ovvero la distanza tra le competenze richieste dalle imprese e la preparazione di chi cerca lavoro. Come invertire la rotta?
“È una delle più grandi sfide d’Europa, è necessario colmare il prima possibile il gap in esperti it e ict. Nel 2020 ne mancheranno all’appello 900mila solo in Europa e circa 135mila posizioni resteranno scoperte solo in Italia, secondo Modis, la società del gruppo specializzata in consulenza ict e ingegneristica. È necessario dire chiaramente cos’è che le imprese cercano per permettere ai giovani di fare le giuste scelte. Ma per colmare il gap è davvero importante avere un sistema educativo che sia in grado di formare i ragazzi in maniera corretta. In alcuni paesi c’è perfetta sincronia perché il sistema educativo si è allineato ai bisogni del mercato, anche grazie ad una stretta collaborazione tra il governo, la scuola e le aziende, come in Svizzera. Solo così i giovani possono essere sicuri di trovare lavoro al termine del loro ciclo di studi”.
Pensa che il successo delle startup possa aiutare a colmare il digital mismatch e rendere sempre più affascinante l’it per i ragazzi?
“Assolutamente sì. Le giovani generazioni guardano con interesse alle startup innanzitutto perché sono spesso progetti davvero molto interessanti, anche dal punto di vista sociale. Molte startup hanno una missione precisa e il loro fascino travolge i giovani che sognano di lavorarci. Ma per farlo devono avere delle competenze specifiche e quindi chi vuole entrarci studia ingegneria, informatica e programmazione. E si sa, quando c’è uno scopo è più facile imparare”.
Quali sono le skill fondamentali per chi vuole lavorare nell’information technology?
“Ci sono tre aspetti, secondo me: attitudine, soft skill e hard skill. Partiamo dall’ultimo, fondamentale: nell’it bisogna essere degli specialisti. Ma può non bastare perché sono anche importanti le soft skill: è necessario essere capaci di collaborare, fare team per risolvere i problemi insieme agli atri; una cosa che non si impara a scuola o all’università. E poi c’è l’attitudine, altrettanto importante: la volontà di imparare sempre e adattarsi. Oggi il flusso di informazioni è costante e bisogna avere la curiosità di conoscere cose nuove per continuare a essere adeguati e al passo con le necessità del mercato durante tutta la carriera”.
A guardarlo dall’esterno, il panorama dell’information technology sembra proprio essere un club dal quale le donne sono escluse. È davvero così, colpa dell’università?
“Non direi perché all’università in realtà c’è una certa diversità, con molte ragazze che ad esempio studiano matematica. Il problema riguarda piuttosto l’integrazione nelle aziende e lo sviluppo negli anni delle loro carriere. Per far sì che il numero delle donne nell’it aumenti sempre di più bisogna avere le infrastrutture adeguate, sia come Paese che come azienda: devono essere messe nelle condizioni di lavorare facilmente, anche con dei bambini. Ma c’è da fare tanta strada per promuovere la diversità e l’inclusione. Ed è un discorso che non riguarda solo la questione uomo-donna. Promuovere la diversità è fondamentale perché inclusione e diversità sono essenziali per comprendere la realtà in cui operiamo, saper affrontare le sfide da punti di vista diversi, che portano più rapidamente a soluzioni diverse. Oggi non può esserci innovazione senza diversità”.
Esistono dei paesi che rappresentano dei buoni esempi da seguire?
“Le dico la verità: sfortunatamente no. Ogni anno studiamo la capacità dei singoli paesi di attrarre, sviluppare e trattenere talenti. È il nostro Global Talent Competitiveness Index. Se guardiamo i primi 20 paesi in classifica, vediamo che paesi come la Svizzera o Singapore sono veramente eccellenti nell’attrarre e mantenere i talenti, ma tuttavia, i risultati nell’ambito della diversità di genere non sono adeguati al top ranking. Insomma, non c’è una best practice ed è per questo che noi promuoviamo questi aspetti: se ne sente la mancanza, ovunque nel mondo”.
Si è appena concluso il secondo Experience Work Day, il gruppo Adecco ha aperto le porte delle sue filiali e dei suoi uffici in circa cento città italiane. Tremila gli studenti di scuola superiore coinvolti. Perché è importante dialogare con loro?
“Molti giovani non riescono a trovare lavoro perché non hanno esperienza; ma moltissimi non sanno cosa possono fare o da dove iniziare. Hanno bisogno di risposte e abbiamo deciso di aiutarli aprendo i nostri uffici. Gli indichiamo cosa è necessario nel mondo del lavoro, cosa possono fare loro, quali sono le professioni più richieste e come possono prepararsi. Ma l’Experience Work Day in Italia è solo una delle moltissime attività che ci vede coinvolti nella formazione dei giovani. Nel solo 2017 abbiamo incontrato 45.000 studenti per l’alternanza scuola-lavoro e circa 1.700 per TecnicaMente, un progetto che coinvolge gli istituti formativi di estrazione tecnica in tutta Italia con l’obiettivo di favorire l’incontro tra domanda e offerta, creando un momento di confronto tra gli studenti dell’ultimo anno e le aziende del territorio”.
In un mondo in continuo cambiamento, Modis ha scelto di sponsorizzare per tre anni l’avveniristica Formula E, il campionato automobilistico con monoposto elettriche. Dove nasce questa scelta?
“Modis è una grande azienda: ha 3 miliardi di fatturato, è presente in 18 paesi, in tre continenti. Ma è un brand ancora non molto conosciuto dal pubblico e questa è una delle ragioni che ci ha spinto a sponsorizzare le monoposto elettriche. Ma c’è una seconda ragione, più importante: c’è un link che ci lega alla Formula E, ovvero il focus sulla performance, l’information technology e l’ingegneria. Esattamente quello che fa Modis tutti i giorni. Infine, abbiamo pensato che per noi la sponsorizzazione avesse senso perché la Formula E promuove a lo sviluppo della mobilità sostenibile. Far parte del Circus ci permette di avere un ruolo attivo nello sviluppo della mobilità elettrica”.